L'ora di lezione non basta
INTRODUZIONE AL LIBRO
di Marco ORSI
Il titolo “L’ora di lezione non basta” parafrasa un libro dello psicanalista Massimo Recalcati
che ha avuto successo trattando un tema,
quello dell’educazione e della scuola,
che se affrontato con competenza e sensibilità, riesce a coinvolgere e
ad appassionare un pubblico ampio, che va oltre la stretta cerchia degli
addetti ai lavori. La delicata relazione
che si intesse tra allievo e docente deve possedere una dimensione d’amore per
la propria missione, tale da impegnare il docente medesimo a far sì che l’eros
di cui viene rivestito dall’alunno, si sposti dalla sua persona agli oggetti
del sapere. L’amore per il sapere e per
il proprio perfezionamento personale è il traguardo che l’insegnante ha
l’obbligo di tenere presente, per non incorrere in cortocircuiti relazionali
che bloccano il giovane invece di farlo maturare. E’
dunque fondamentale pensare l’ora di
lezione – ma in genere l’attività didattica - come bene prezioso, tempo particolare dove può accadere l’inedito,
tempo dove la relazione che si instaura può divenire occasione per qualcosa di
indimenticabile. Un tempo dove non ha
luogo l’assimilazione dello studente al maestro, ma al contrario, dove il
maestro spinge l’allievo all’indipendenza, a rompere il legame maternalistico
invitandolo a divenire differente, autonomo.
Dobbiamo restituire alla scuola
quell’elemento di straordinarietà che le spetta, ma che le è stato a lungo
sottratto a causa di tanti fenomeni che hanno a che fare con la marginalizzazione
delle nuove generazioni, per cui i ragazzi e i bambini non sono più accolti
come l’irrompere della novità e dello straordinario, ma vengono ridotti a
soggetti da blandire e iperproteggere.
La lezione è importante ma ci sono altri aspetti
che non vanno dimenticati. Personalmente tra tutti questi ne reputo importanti
due: Il primo riguarda le cose, il secondo la comunità. Per questo
l’ora di lezione non basta.
Non basta perché mancano le cose e la comunità,
appunto. Con le cose
intendo tutti quegli oggetti che danno al percorso formativo quel che di così
sorprendente da renderlo entusiasmante e coinvolgente. Il vero cambiamento è infatti far
vivere le cose allo studente invece che parlarne. Si tratta di creare le occasioni per rendere
possibile l’incontro dell’alunno con le cose del mondo, che lo incoraggi a
riconoscere la sua durezza ed insondabilità, che lo aiuti a incontrarsi /
scontrarsi con il limite, sapendo nel contempo alimentare per le cose del mondo curiosità e meraviglia. E’ vero, il ruolo del docente è qui
importante, ma non tanto come soggetto frontale, quanto piuttosto come
intermediario e facilitatore, come colui che attiva la relazione con le cose e aiuta il giovane a conoscere, a
dare un nome al mondo, ad interpretare. Mi ha sempre colpito come nelle scuole steineriane
agli adolescenti venga proposta la scultura con l’intento educativo di far loro
comprendere come il mondo sia in qualche modo una pietra la cui durezza deve
essere non distrutta, ma scalfita per trarne fuori dimensioni di bellezza e
utilità. Manca nel testo di Recalcati questa critica all’astrattezza che a suo
tempo Dewey rivolgeva alla scuola. Certo
l’insegnamento è anche distacco e riflessione sul mondo, ma il distacco e la
riflessione sono possibili se è stato promosso l’incontro con le cose del mondo: in definitiva il distacco non può darsi senza l’incontro.
Il compito della scuola è pertanto costituito anche dall’esporre gli studenti
all’esperienza, al contatto, al prendere visione della realtà.
Ma le cose, come
non si mancherà di approfondire lungo il corso dei capitoli del presente libro,
sono anche le cose che ci servono per
conoscere le cose, le cose del mondo. Una cosa
è il nostro corpo che può essere oggetto di conoscenza, e qui siamo a
quanto dicevamo poc’anzi, ma un’altra cosa
è intenderlo come strumento di conoscenza. Ci riferiamo a quei cinque sensi che fanno
tutt’uno con il nostro corpo e ci consentono appunto la conoscenza. Ma lo strumento corpo, la cosa corpo, ha bisogno anche di altre cose, di strumenti – pròtesi, per potenziare la sua
sensualità. Se il corpo nudo è strumento
sufficiente per una prima conoscenza del mare, la maschera subacquea costruita
dall’uomo ci permette di ampliare lo spettro della conoscenza, potenziando la
vista. Il corpo va vestito per conoscere. Galileo aveva vestito il suo occhio con il cannocchiale e ciò gli permise di
scoprire la configurazione delle cose celesti. In questo libro allora si propone
un’attenzione inedita alle cose come strumento di conoscenza, proponendo di vestire a nuovo le classi delle nostre
scuole. Se la formazione delle nuove
generazioni è così fondamentale come si dice, allora gli spazi ad essa riservati
dovrebbero essere curati, dotati di giochi per imparare le varie competenze, di
materiali per la matematica, di strumenti per i vari aspetti della lingua, di
attrezzi per gli esperimenti scientifici, di libri, enciclopedie, carte
geografiche, di computer collegati ad internet e così via. Dovrebbero essere attrezzati anche con
materiali d’archivio per raccogliere disegni, articoli, saggi, foto, lettere, musica,
video, reperti, interviste e testimonianze, nonché gli stessi prodotti degli
alunni, trovando il giusto mix tra cartaceo e digitale. Insomma i bambini e i ragazzi dovrebbero
poter vestire i propri sensi, come
poté fare Galileo, per fare le loro scoperte.
Tra le varie suggestioni, ad
esempio, si propone la necessità di riprendere confidenza con un’arte
paradossalmente misconosciuta: l’arte della scrittura, ridando importanza alla
cura del gesto grafico. Così assumono rilevanza
non solo l’acquisizione di tecniche, ma anche i vari materiali come
quaderni, penne, matite, colori, anche essi da ritenersi strumenti per la conoscenza.
E poi ci sono alcune cose come
gli attaccapanni, gli zaini, le sedie, i banchi, la cattedra, la stanza dei docenti, che sono oggetti che, come scopriremo, hanno un impatto
tutt’altro che lieve sugli stessi modi di conoscere e di apprendere.
L’altro aspetto da considerare è la comunità. Bisogna ricordare che l’ora di lezione è svolta da molti docenti: già nella mattinata di scuola vi sono tante ore di lezione, l’una messa
accanto all’altra, ore nelle quali altri docenti fanno lezione, ore piene di
contenuti, discorsi e parole, spesso giustapposti e scollegati. Ma anche regole, morali, visioni, fino a
comprendere i particolari modi di “tenere la classe” che si dispiegano in una
così vasta gamma di realizzazioni, per cui alla fine ciascun docente gioca la
sua personalissima partita, diversa da tutte le altre partite. Allo studente rimane l’arduo compito di
sintonizzare il proprio comportamento sulla lunghezza d’onda di chi è in quel
momento a saturare l’ora di lezione e,
nel contempo, a lui compete lo sforzo per individuare le connessioni tra le
discipline, in modo da scovare qualche recondito filo rosso che le lega e dà
loro un senso. Un insegnamento significativo allora si attua
nella struttura di un curricolo organizzato da una comunità professionale, vale a dire da un gruppo di docenti che si
impegna a costruire un’esperienza coerente di scuola intorno allo
studente. Anche qui l’insegnante capace,
carismatico, impegnato, ha la responsabilità di giocare un suo ruolo, non solo nel rapporto con i ragazzi e i bambini, ma
anche nella relazione con i colleghi, stimolando il miglioramento della
didattica, la discussione sulle discipline e la loro integrazione, facendosi protagonista
in generale dello scambio di buone pratiche.
Costruire una comunità professionale è una delle grandi sfide della
scuola di oggi. Non a caso accenniamo a ricerche che mettono in connessione la
coesione degli staff docenti, la loro propensione a condividere buone pratiche
e a progettare insieme con la qualità degli apprendimenti degli studenti in
aree disciplinari come la lingua, la matematica, le scienze.
Diversi sono dunque i motivi portanti di questo
libro, ma tutti accomunati da alcuni fili rossi che si ritrovano ora impliciti
ora esplicitati nelle righe del testo. Questa
è una riflessione sulla scuola e in generale sulla formazione, ovvero su quel
movimento più o meno organizzato a cui le società tutte, sviluppate e in via di
sviluppo, povere o ricche, tengono grandemente in quanto entra in gioco il loro
futuro. L’educazione è un pilastro del vivere civile poiché non è
pensabile la civiltà, la crescita umana e sociale senza l’accompagnamento delle
giovani generazioni alla vita adulta.
L’essere umano, come sappiamo, ha questa peculiarità di essere fragile,
connotato da un lungo periodo di preparazione per diventare maturo: un lungo
periodo che tra l’altro si è ulteriormente incrementato in ragione
dell’aumentata complessità degli stessi
sistemi sociali, specie nei contesti avanzati.
E la complessità sociale non è solo definita dalla ricchezza di
competenze e di ruoli lavorativi, ma deriva anche da quel processo di
individualizzazione che punta a enfatizzare i talenti, le disposizioni, gli
interessi, le attitudini, le particolarità e i bisogni di ciascun soggetto. Non
è più il tempo delle masse, ma quello degli individui, un tempo però dove gli
individui medesimi hanno il compito di riscoprire la comunità, il vivere
assieme. Inoltre a tutto questo si
aggiunga il rimescolamento dei ruoli e delle stesse competenze, per cui le
giovani generazioni acquisiscono saperi e abilità – anche fuori da quel sistema
formativo organizzato che è la scuola - che con difficoltà si ritrovano negli
anziani e qualche volta anche negli adulti.
Basti pensare alle abilità connesse all’uso del web, alla conoscenza
delle lingue o a quella familiarità con il mondo che i viaggi a basso prezzo
consentono, al ruolo in genere dei mass- media, all’aumento straordinario
dell’interazione sociale diretta e virtuale.
Il sistema formativo una volta
coincideva con il sistema scolastico, ora non è più così: il primo è molto più grande del secondo e
tuttavia il secondo agisce ancora come se questa coincidenza permanesse. E’ la sindrome della finestra aperta sul mondo
che ancora attanaglia la scuola e non le consente di adattarsi creativamente
alla nuova realtà. Tale sindrome dice
del fatto che la scuola ha quella sorta di presupponenza tipica di chi è convinto
di essere colui che apre gli occhi, che svela il mondo, che introduce alla
conoscenza, per cui esiste da una parte chi sa e dall’altra chi non sa. E’ come immaginare che i bambini e i ragazzi siano una tabula rasa, cosicché aspettano con una
certa impazienza la rivelazione. E
tuttavia non è così. Lo dicono le
ricerche scientifiche che attestano che sin dalla nascita tutti possiedono
strutture cognitive in grado di fare le prime esplorazioni del mondo. I soggetti umani non sono tabula rasa perché le esperienze e le
stimolazioni già da 0 a 6 anni, si sono talmente sviluppate nelle società
contemporanee, da far sì che la scuola si trovi davanti una persona straordinariamente
ricca a livello cognitivo ed emotivo.
Il
processo di individualizzazione unito alle opportunità di vita dilatate che
permettono una grande varietà di esperienze, stimolano poi il protagonismo,
quel senso di partecipazione attiva, di voler essere artefici e creatori. Anche di fronte a ciò la risposta è a dir poco
insufficiente. I sistemi scolastici,
possiamo dire ad ogni latitudine, sono caratterizzati da quell’impronta marcata
di tipo trasmissivo che rende passive le nuove generazioni. Si pensi solo al setting scolastico che dal continente
Asiatico all’America Latina, dall’Europa all’Africa è costituito per
grandissima parte da cattedra e banchi monoposto messi in fila. Nel libro - sulla scorta non solo di studio e
di riflessione personale, ma anche dell’esperienza condotta come formatore e
promotore del movimento di scuole “Senza Zaino”[1]
- ripropongo un metodo, o forse è meglio dire una prospettiva, che è quella
dell’Approccio Globale al Curricolo, dove tutto si tiene: lo spazio e i contenuti, i metodi e i saperi,
il corpo e la mente, la ragione e le emozioni, il tattile e il digitale, in
sintesi la Terra e la Nuvola. La scuola, dunque, va ripensata, ma va ripensata
con gli insegnanti e con gli studenti:
lì troviamo le risorse per i cammini da intraprendere, quei bagagli da
valorizzare che magari sfuggono agli occhi distratti, ma che se sappiamo
guardare con attenzione emergono fino al punto da scoprire veri e propri
tesori. Da qui è necessario cominciare. Dunque l’ora di lezione non basta.
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